Possibile che il prezzo del petrolio stia calando?

Si sa, l’economia, al pari di ogni attività umana, può essere utilizzata come pedina ulteriore in quella grande partita a scacchi che è il mondo in cui viviamo. Non solo armi, speculazione e guerra multimediale, ma anche investimenti, prezzi e pressioni commerciali sono in grado di tenere in scacco più nazioni contemporaneamente.

Dall’inizio del mese di Dicembre, che ormai ci lasciamo alle spalle, una notizia è passata attraverso i mezzi di informazione senza far troppo rumore e senza destare grande scalpore fra i cittadini occidentali: il prezzo del petrolio si è abbassato e non intende alzarsi ancora per un po’. Almeno questo è quello che sostengono diversi analisti, i quali affermano anche che la ripresa del prezzo del barile non avverrà prima della seconda metà del 2015. Tra questi spicca Anna Kokoreva, la quale pronostica non solo l’andamento futuro del prezzo del greggio, che probabilmente a gennaio scenderà sotto i sessanta dollari al barile, ma individua il gioco di potere che c’è dietro a questo crollo: “L’Arabia Saudita persegue l’obiettivo di emarginare lo shale gas e di rendere non redditizi i relativi progetti degli USA. Fino a quando non raggiungerà questo obiettivo, i prezzi del petrolio non cresceranno. In seguito alla decisione dell’OPEC aumenta la probabilità che i prezzi del petrolio andranno gradualmente scendendo. Si tratta, ovviamente, non della più prossima prospettiva. Si tratterà del periodo di uno o due mesi. A far cadere i prezzi sono anche le riserve di petrolio che stanno aumentando. Adesso l’eccedenza giornaliera del petrolio sul mercato è stimata in 2 milioni di barili. All’inizio del 2015 la domanda dovrà cadere. L’eccedenza diventerà ancora più grande. Penso che in gennaio vedremo il calo fino a 60 dollari al barile”.

Appare chiaro, quindi, come sia cambiata, e di molto, la scacchiera globale dei produttori di petrolio. Infatti, dal 2011 gli Stati Uniti hanno intrapreso una massiccia ricerca di nuovi giacimenti sul proprio territorio. Ma queste scelte economiche, produttive e politiche sono state incoraggiate anche dai nuovi metodi tecnici per accaparrarsi ogni minima goccia d’oro nero, primo fra tutti la fratturazione idraulica, o fracking, la quale permette di estrarre l’olio fossile anche da pozzi esauriti o da terreni duri. Questa tecnica, nata in Pensilvania nel 1860 ma solo ora massicciamente utilizzata, ha permesso agli U.S.A. di salire in cima alla classifica dei maggiori produttori mondiali di petrolio, scalzando ogni rivale e posizionandosi prima. Nel giro di pochi anni, la maggiore superpotenza mondiale spera di diventare energeticamente indipendente, cioè di coprire in proprio tutti i consumi del Paese. Per ora, si accontenta di coprirne l’86%. Il fracking, oltretutto, è una tecnica estrattiva che sta creando non pochi problemi ambientali e, sospettano geologi, vulcanologi e scienziati, potrebbe essere alla base di diversi sismi di bassa e media intensità. Comunque sia, l’aspetto ambientale è tenuto in poco conto dai Paesi produttori. Un’altra ricerca portata avanti dallo zio Sam è quella dello shale gas, anch’esso estratto con sistemi di fratturazione idraulica o meccanica.

Il risultato di questa ascesa statunitense è, come già accennato da Anna Kokoreva, l’aumento della produzione di petrolio, l’aumento delle sue riserve e, quindi, un superamento da parte dell’offerta sulla domanda, facendo così abbassare i prezzi del greggio il quale, oltretutto, viene tenuto al ribasso dagli altri produttori interessati a rendere il petrolio americano meno conveniente da estrarre e da vendere, lasciando invariata la produzione. Uno di questi produttori è l’Arabia Saudita, che nel 2011 era la prima forza produttrice di petrolio, ma tra essi vi è anche la Russia (molto interessata a tenere sotto controllo l’andamento dei prezzi del gas, in forza del suo primato di esportatrice di combustibile in Europa), l’Iran e gli Emirati Arabi Uniti. L’Europa guarda anche al Nord Africa come possibile riserva d’acquisto di petrolio, in quanto i prezzi del greggio sono divenuti convenienti in seguito alla Primavera Araba, la quale ha dato luogo a situazioni di caos e di poco controllo che hanno allontanato diversi Paesi acquirenti di Libia, Algeria, Egitto e Tunisia. Il Vecchio Continente, quindi, guarda a una possibile espansione del mercato in senso verticale, non orizzontale, e, causa anche la crisi con Putin, guarda con meno ottimismo i rapporti energetico-economici con la Russia. Quest’ultima, da parte sua, visti i sospetti europei, si concentra sul mercato asiatico, progettando un super-gasdotto dalla portata di sessanta miliardi di metri cubi e lungo quattromila chilometri, il “power of Siberia”, che fornirà gas e petrolio alla Cina a partire dal 2017. L’avviso politico è chiaro: la Russia ce la farà anche senza l’Europa.

Non solo Net Neutrality

“All Bits are created equal”, ovvero “ tutti i bit sono stati creati uguali”, è uno degli slogan della protesta “Internet Slowdown”, avvenuta lo scorso 10 settembre. Colossi come Netflix, FourSquare, KickStarter, Mozilla, Reddit, Vimeo e altri 40.000 siti hanno istallato un widget in grado di rallentarli, coprendo il web con le tipiche icone circolari che ruotano, come quando una pagina Web richiede tempo per essere caricata, per simboleggiare i tempi rallentati di download e di streaming a cui gli utenti andranno inevitabilmente incontro se le proposte della Federal Communications Commission (FCC) diventeranno legge. Secondo gli operatori della Rete che hanno scelto di aderire all’Internet Slowdown la proposta di riforma prevederebbe misure e linee di connessione veloce che minacciano l’attuale impianto che garantisce la neutralità della Rete, minacciando (ripetizione) di conseguenza la concorrenza online.

La proposta della Fcc è infatti quella di creare un “Internet a due velocità”. Tale riforma, seppur si realizzasse soltanto negli Usa, avrebbe ovvie ripercussioni globali. In breve, essa consentirebbe alle aziende di siglare accordi “pay-for-priority”, permettendo agli Internet service provider (ISP) di imporre a certe condizioni delle tariffe extra ad aziende come YouTube e Netflix per dar loro la garanzia di poter sempre viaggiare su reti ultra-veloci e fornire download e streaming di qualità agli utenti. Tali proposte hanno subito scatenato le proteste delle Internet companies e la Fcc ha ricevuto addirittura 1,1 milioni di commenti pubblici. Diversi osservatori ritengono che porterebbe alla fine della neutralità in rete, almeno per come è stata concepita fino ad oggi. Secondo tale principio un provider non può bloccare nè limitare la quantità di banda destinata a raggiungere un certo sito Internet rispetto a un altro. In altre parole, quando ci colleghiamo ad internet ognuno di noi deve passare attraverso un provider, una società che fisicamente gestisce il collegamento dalla propria casa ai suoi centri dati, che a loro volta permettono di accedere a qualsiasi sito in ogni parte del mondo. I provider fino a ora si sono comportati in modo neutrale, ovvero trattando i flussi di dati allo stesso modo e senza fare favoritismi. Chi sostiene la neutralità della rete vuole che le cose continuino a funzionare in questo modo, senza discriminazioni.

Per l’Internet Association si tratterebbe di una separazione che porterebbe alla distorsione del mercato con danni all’innovazione, alla concorrenza e in definitiva agli interessi degli utenti della Rete. Si oppongono con forza, oltre ai progettisti di Internet tra cui spiccano Tim Berners-Lee e Vint Cerf, aziende come Google, Microsoft, Ebay e Amazon. Alcuni sostenitori della net neutrality ritengono che a decretare il successo di Internet sia stata proprio la parità nel trattamento dei contenuti. Col monopolio di pochi distributori, i nuovi servizi e le piccole startup avrebbero infatti difficoltà a diventare popolari perché meno competitivi. Questi canali preferenziali potrebbero portare a chiudere il mercato, trasformando Internet in una Tv, con i più forti che riescono ad arrivare agli utenti agevolmente perché pagano di più, mentre chi è debole e non può permettersi di pagare rimane fuori dai giochi.

Non tutti gli esperti sono d’accordo. Bob Kahn, primario inventore di internet, sostiene che la net neutrality è uno slogan dogmatico che bloccherebbe la sperimentazione e l’innovazione della rete. Il termine net neutrality è stato ampiamente strumentalizzato. C’è chi vede nella presa di posizione della Silicon Valley una mera azione di convenienza per evitare gli obblighi di pagare gli esosi traffici dei propri servizi commerciali. Gli operatori delle reti, inoltre, lamentano il costo delle infrastrutture e la necessità di espansione della rete. Insomma, il dibattito è controverso. Il capo della FCC Wheeler ha proposto nuove regole che imporrebbero ai provider di non bloccare o discriminare il traffico verso siti o servizi in particolare. Sarà però consentito ai provider di mettere a disposizione corsie preferenziali a pagamento per i siti. Se questa soluzione sarà confermata, vorrà dire che YouTube potrà pagare i provider per assicurarsi la banda necessaria per i suoi video in streaming.